Consiglio Unione Europea

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RAI STORIA – OGGI NELLA STORIA

Altiero Spinelli , il padre dell’Europa

31 Agosto – Nasce a Roma Altiero Spinelli  politico e scrittore italiano, padre del movimento Federalista Europeo e cofondatore dell’Unione Europea dei Federalisti. Tra il 1970 e il 1976 è  membro della Commissione Europea, poi del Parlamento italiano e quindi, nel 1979, del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale. La sua visione dell’Europa, con marcate caratteristiche federali, influenza in maniera significativa il cammino dell’Unione dai suoi esordi fino all’Atto unico europeo. Una visione tuttavia che ha perso nel tempo il vigore originale lasciando più spazio a una Europa delle nazioni.

(tratto da http://www.raistoria.rai.it/accaddeoggi/altiero-spinelli-il-padre-dell%E2%80%99europa-287.aspx )

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Campagna per la Federazione Europea

NOI, POPOLO EUROPEO”

CHIEDIAMO LA FEDERAZIONE EUROPEA

Per governare l’economia europea

Per una politica estera e di sicurezza europea

Per uno sviluppo equo e sostenibile

Per la pace e la giustizia nel mondo

APPELLO AL PARLAMENTO EUROPEO, ALLA COMMISSIONE EUROPEA,

AL CONSIGLIO EUROPEO DEI CAPI DI STATO E DI GOVERNO E AI PARTITI

(da fare sottoscrivere a cittadini, poteri locali, sindacati e movimenti della società civile)

 

Il progetto di un’Europa libera e unita,che cominciò a circolare nel 1941 con il Manifesto di Ventotene,non ha ancora raggiunto la sua meta.

I cittadini europei hanno un Parlamento, una Corte di Giustizia e una moneta unica, ma non ancora uno Stato e un governo federali, perché i governi nazionali non vogliono cedere all’Europa le loro sovranità nel campo dell’economia e della sicurezza.

Condannano così gli Europei al declino politico, all’arretramento sociale, alla perdita di competitività, privano le giovani generazioni di un futuro, alimentano la crisi della democrazia e la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni.

Noi, popolo europeo, vediamo nell’unità politica dell’Europa la risposta più alta alla crisi politica della società contemporanea.

Rivendichiamo

la Federazione europea

  • con un governo federale dotato di poteri limitati ma reali nel campo dell’economia, della finanza pubblica, della politica estera e di sicurezza, e responsabile di fronte a un Parlamento europeo che eserciti pienamente il potere legislativo insieme alla Camera degli Stati,

  • a partire dai paesi disponibili a rafforzare l’unità – l’Eurogruppo – e in particolare da quegli Stati che storicamente hanno promosso l’unificazione europea – la Francia, la Germania e l’Italia -, perché vogliamo:

– creare un governo democratico dell’economia europea e salvare l’euro attraverso il risanamento delle finanze pubbliche e lo stimolo alla crescita;

– attuare un Piano europeo di sviluppo economico ecologicamente e socialmente sostenibile, basato su investimenti in infrastrutture, la riconversione in senso ecologico dell’economia, incrementando l’uso di energie rinnovabili, l’attività di ricerca ed innovazione, l’erogazione di beni pubblici europei e finanziato da un aumento significativo del bilancio europeo con l’emissione di euro-obbligazioni e con imposte europee (come quella sulle emissioni di CO2 equella sulle transazioni finanziarie) a parziale sostituzione di imposte nazionali, realizzando una più equilibrata distribuzione del carico fiscale tra i diversi livelli di governo (locale, regionale, nazionale ed europeo);

– difendere il modello sociale europeo, tutelare i soggetti più deboli, stabilire standard sociali e di lavoro minimi a livello europeo, garantire a tutte le persone i diritti politici, civili e sociali stabiliti dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”;

– dar vita a un’unica politica estera, di sicurezza e di difesa, che consenta all’Europa di parlare con una sola voce nel mondo, per promuovere la pace, il disarmo, la giustizia internazionale, e dei diritti umani, a partire dall’area mediterranea, africana e mediorientale.

Chiediamo

la convocazione di una Assemblea-Convenzione costituente

  • composta dai rappresentanti eletti dai cittadini a livello nazionale ed europeo, nonché dei governi e della Commissione europea, con il mandato di  elaborare superando i veti nazionali una Costituzione federale, che dovrà essere ratificata con un referendum, da tenersi nei paesi che avranno partecipato alla redazione della Costituzione, in modo da fondare sulla volontà popolare l’unità politica degli europei.

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Oggi mercoledì 25 maggio a Roma

alle ore 17.00 presso la CGIL nazionale 

Corso d’italia, 25 sala Di Vittorio

European Alternatives, Movimento Federalista Europeo, ARCI, CGIL, Da Sud, Osservatorio Europa, CIME, FLARE, Assopace, Uisp

organizzano un incontro per discutere su:

UNA RINNOVATA POLITICA EUROPEA A FAVORE DELLA TRANSIZIONE DEMOCRATICA IN MAGHREB / MASHREK

Firma l’appello:

APPELLO PER UNA RINNOVATA POLITICA EUROPEA A FAVORE DELLA TRANSIZIONE DEMOCRATICA IN MAGHREB E DEI DIRTTI DEI MIGRANTI

Appello al Parlamento europeo, alla Commissione europea e al Consiglio europeo

L’Europa è di fronte ad un’occasione unica di sanare le storiche ferite che la dividono dai paesi del Maghreb, sostenendo la transizione democratica in atto. Ma assente come entità politica, in questi giorni cruciali l’Unione europea si mostra agli occhi del mondo divisa tra la diplomazia delle bombe di Sarkozy, la paranoia xenofoba del governo italiano e l’indifferenza tedesca.

Lampedusa rappresenta, prima ancora di una tragedia, l’incapacità delle classi politiche nazionali di intercettare la volontà di cambiamento dei paesi del Maghreb e di mettere in piedi una ridefinizione dei rapporti nord-sud che vada oltre la fallimentare e cinica logica dell’emergenza continua, sbandierata per meri fini elettorali.

Le politiche nazionali nei confronti del fenomeno migratorio si sono rivelate finora inadeguate dal punto di vista della sua gestione (ingressi, accoglienza, inserimento, ecc.), da quello della tutela dei diritti individuali, civili e sociali, cosi come inadeguate sono le politiche di cooperazione e l’aiuto allo sviluppo.

Come la recente querelle tra Francia e Italia sulla questione dei migranti tunisini dimostra, la mancanza di una vera politica europea sulla migrazione ha determinato, insieme ad evidenti ingiustizie e a lesioni gravi del diritto internazionale, una situazione confusa, incerta e contraddittoria incapace di garantire la tutela dei diritti umani, civili, politici, sociali ed economici dei migranti e dei richiedenti asilo.

Consapevoli che l’accoglienza di chi fugge dalla povertà e dalle guerre è necessaria ma non sufficiente sosteniamo la richiesta che emerge da tutti i movimenti sociali dei paesi africani per il diritto a restare e a partire. Soltanto lo sviluppo democratico, sociale ed economico può rendere il Maghreb un’area libera ed indipendente, dove le giovani generazioni possono costruire il loro futuro.

Siamo convinti che solo il rilancio del progetto di unità politica europea possa finalmente esprimere una politica estera e di sicurezza al servizio della pace, della democrazia, della giustizia e della solidarietà a livello internazionale; dichiariamo prioritaria la definizione di una nuova strategia europea di vicinato per i paesi del Maghreb e di co-sviluppo equo e compatibile con i delicati equilibri ambientali  per l’intera regione del Mediterraneo a partire dai seguenti punti:

1. Esercizio di pressioni politiche e diplomatiche dell’Unione europea per garantire il pieno rispetto delle domande e aspirazioni democratiche dei popoli del Maghreb.

2. Varo di una direttiva europea che preveda un permesso di soggiorno per la ricerca di lavoro secondo criteri da stabilire in cooperazione con i Paesi del Maghreb, con il fine di creare un canale semplice, legale e unitario per i cittadini nordafricani interessati a lavorare o studiare all’interno dell’Unione europea, nel rispetto del diritto alla mobilità e nella piena consapevolezza del contributo dei migranti alla sostenibilità dei sistemi sociali europei.

3. Obbligo al rispetto assoluto del principio del non respingimento e sviluppo di standard minimi vincolanti per tutti i paesi europei sul trattamento dei richiedenti asilo e dei migranti irregolari, atti a garantire il pieno rispetto della dignità di ogni essere umano.

4. Ratifica europea della Convenzione dell’ONU sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, approvata dall’Assemblea delle Nazioni unite il 18/12/1990 ed entrata in vigore nel 2003 ma non ancora ratificata da alcun paese dell’Ue.

5. Sostituzione del regolamento di Dublino con una vera politica europea di accoglienza dei richiedenti asilo, come auspicato dalle istituzioni europee nel Programma di Stoccolma.

6. Superamento del legame tra cittadinanza e nazionalità – che esclude milioni di immigrati dai diritti politici, sociali e civili – al fine di fondare la cittadinanza europea sulla residenza.

7. Rilancio di una politica europea di aiuto allo sviluppo che razionalizzi l’impiego delle risorse nazionali mettendo in piedi un piano per il nord Africa finalizzato allo sviluppo agricolo, alla gestione comune di acqua ed energie alternative e all’integrazione economica e politica dell’area, dando un impulso unitario a progetti a rilancio dell’economia dei paesi del Maghreb e a sostegno della transizione democratica in atto.

8. Creazione di uno strumento diretto di finanziamento per giovani maghrebini per incentivare l’avvio di nuove iniziative economiche o cooperative sul territorio.

9. Infine, la convocazione di una Convenzione Euromediterranea, aperta alla società civile, con il mandato di stendere una bozza di accordo che avvii un processo di allargamento dell’area di libera circolazione ai Paesi del mediterraneo con il consenso di tutte le parti.

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EUROPEAN ALTERNATIVES APPELLO MAGHREB

Primi firmatari

European Alternatives (Transnazionale)

Movimento Federalista Europeo (Italia)

Egyptian Democratic Academy (Egitto)

Migrant Rights Network (Gran Bretagna)

Flare (Transnazionale)

CGIL (Italia)

Arci (Italia)

Osservatorio Europa (Italia)

Tavola della Pace (Italia)
Associazione per la Pace (Italia)

Consiglio Italiano del Movimento Europeo (Italia)
Un ponte per… (Italia)

UEF Franche-Comté (Francia)
Coordinamento Donne contro il Razzismo della Casa Internazionale delle Donne di Roma (Italia)

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di Lucio Levi

 

Dopo la caduta dei regimi fascisti nell’Europa mediterranea, in America latina e in Asia e di quelli comunisti nella grande regione che per cinquant’anni è stata soggetta al dominio dell’Unione Sovietica, ora è giunto il momento del risveglio dei popoli arabi. Quella che Huntington ha chiamato la “terza ondata” del processo di democratizzazione, cominciata nel 1974 con la rivoluzione portoghese, non si è dunque esaurita.

I governi dell’Unione europea e degli Stati Uniti sono stati colti di sorpresa dal moto spontaneo della masse popolari che hanno invaso le piazze delle città dell’Africa del nord e del Medio Oriente. In nome della stabilità internazionale essi hanno appoggiato fino all’ultimo i vecchi e cadenti regimi oppressivi e corrotti di Tunisia ed Egitto e ne hanno accolto la caduta con disappunto. I governi dell’UE, e purtroppo anche il Parlamento europeo, non hanno trovato parole né formulato proposte politiche per intervenire sul grandioso movimento di liberazione in corso. Il sistema internazionale, con il declino dell’influenza degli Stati Uniti e l’assenza dell’Europa non sembra avere le risorse economiche e di potere né la visione politica per influire positivamente sugli avvenimenti in corso e per aiutare e orientare la transizione alla democrazia.

È sconfortante osservare come i dirigenti politici europei percepiscano il movimento dei popoli che si vogliono liberare dall’oppressione dei loro governi solo in termini di sicurezza e propongano solo di inviare poliziotti a presidiare le coste. È questa l’Europa che non vogliamo: l’Europa fortezza che si chiude in se stessa, che esibisce il volto odioso della xenofobia, che esclude la Turchia perché islamica, che in nome della religione cristiana rappresenta il proprio Dio con le fattezze dell’uomo occidentale. Il progetto dell’Unione per il Mediterraneo (2008) che doveva approfondire il Partenariato euro-mediterraneo (1995) è fallito. La riunione dei governi di questa associazione, prevista per lo scorso dicembre, non si è tenuta. L’area di libero scambio progettata per il 2010 non si è realizzata, né i governi europei hanno onorato l’impegno a interrompere la cooperazione economica con i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo che non rispettano i diritti umani.

Va rilevato che lo schema dell’allargamento, adottato per i paesi dell’Europa centro-orientale, e della loro inclusione nell’UE non può essere riprodotto per il Nord Africa e il Medio Oriente. Questa regione è la sede di un’organizzazione internazionale – la Lega araba –, la quale è il potenziale veicolo di un processo di integrazione regionale, che dovrebbe includere anche Israele. Purtroppo l’integrazione è di là da venire. Se consideriamo il Maghreb, solo l’1-2% del commercio estero di questi paesi si sviluppa all’interno della regione. Eppure la Commissione per l’Africa dell’ONU valuta che l’integrazione economica del Maghreb consentirebbe di aumentare del 5% il PIL della regione. L’UE, che ha continuato a tenere rapporti bilaterali con il Nord Africa, avrebbe potuto incoraggiare l’integrazione regionale, come hanno fatto gli Stati Uniti con l’Europa quando hanno lanciato il Piano Marshall, condizionando l’erogazione degli aiuti alla formulazione di un piano di ricostruzione concertato in comune.

Lo spauracchio dell’estremismo islamico, agitato dai governi dell’Occidente per giustificare il sostegno ai regimi autoritari, appartiene a una logica del passato, che non tiene conto dello sviluppo economico, della modernizzazione sociale e della secolarizzazione in corso nella regione. La diffusione dell’istruzione soprattutto tra le giovani generazioni e la diminuzione del tasso di natalità, che è una conseguenza della crescita dell’istruzione delle donne, hanno avvicinato queste popolazioni ai valori di libertà e uguaglianza tipici delle società più sviluppate. Queste sono le condizioni oggettive che hanno fatto emergere una società civile e il pluralismo. Il fondamentalismo islamico è una corrente reazionaria che vuole contrastare questa tendenza. E infatti esso sembra essere il principale sconfitto nella rivoluzione in corso. All’avanguardia del movimento ci sono i giovani, i quali, malgrado la buona istruzione, sono penalizzati dall’esclusione dal mercato del lavoro. Essi hanno usato i nuovi mezzi di comunicazione ai fini della mobilitazione, sostituendosi ai partiti e alle altre organizzazioni della politica tradizionale. Ciò che colpisce in questo movimento è la mancanza di leaders nel senso tradizionale della parola. La figura di leader dei tempi nuovi è l’egiziano Wael Ghonim, un funzionario di Google.

Le inconsuete dimensioni della rivoluzione mostrano che il mutamento economico e sociale, sviluppatosi sull’onda della globalizzazione, richiede in modo imperativo cambiamenti politici e istituzionali. Qui sta il mistero che la “vista corta” delle élites politiche dell’Occidente non ha saputo penetrare. Non era un mistero per Emmanuel Todd, il quale dieci anni fa (nel libro Après l’empire) aveva diagnosticato il passaggio alla modernità del mondo islamico e aveva previsto il cambio istituzionale.

Va notato che gli anelli deboli del mondo arabo, dove è cominciato il crollo dei vecchi regimi – la Tunisia e l’Egitto – sono paesi privi di petrolio. Invece i paesi produttori di petrolio hanno risorse per promuovere il consenso tramite la concessione di servizi gratuiti alla popolazione (acqua, elettricità, istruzione ecc.). E infatti questi ultimi hanno mostrato una maggiore resistenza al contagio del movimento rivoluzionario.

La polizia in Tunisia e l’esercito in Egitto hanno il merito di avere favorito la caduta delle dittature senza un bagno di sangue, che purtroppo si preannuncia come un’eventualità per altri paesi. L’immensa piazza Tahrir del Cairo, dove si è riunito il popolo che ha determinato la caduta di Mubarak, non è stata una nuova piazza Tienanmen. Va notato che i militari hanno svolto un ruolo progressista in altre occasioni, a cominciare dal colpo di stato di Nasser, che nel 1952 spodestò re Faruk. Quando, dopo la rivoluzione khomeinista in Iran (1979), le elezioni aprirono la strada all’affermazione dei principi della repubblica islamica prima in Turchia, poi in Algeria, furono ancora i militari che impedirono l’affermazione dell’integralismo islamico. In tutto il mondo arabo sono le forze armate l’unica struttura che può guidare la transizione alla democrazia, con tutti i rischi che ciò comporta. Per molti anni sui popoli arabi incomberà il rischio che la democrazia possa ridursi a un’istituzione di facciata e che il potere reale resti nelle mani dei generali, come mostra il caso del Pakistan. D’altra parte, va sottolineato che, se i militari turchi hanno ceduto il potere, lo si deve soprattutto alle pressioni che l’UE ha esercitato nel corso dei negoziati per l’adesione della Turchia.

Gli esempi sopra ricordati provano che le elezioni sono una condizione necessaria ma non sufficiente della democrazia. La transizione alla democrazia sarà un percorso lungo e irto di insidie. Tanti anni di governi autoritari hanno distrutto (o non hanno permesso che si formassero) le strutture associative essenziali perché le elezioni possano aprire la strada a un governo democratico: partiti politici, sindacati indipendenti, associazioni della società civile. La transizione avrà successo se saranno elaborate le norme costituzionali che assicurino la formazione di uno spazio pubblico dove il dibattito politico e la selezione dei leaders possano avvenire in modo libero e trasparente.

Su queste basi potrà risorgere il panarabismo all’insegna della solidarietà tra popoli che hanno scelto la libertà e la vogliono difendere costruendo istituzioni comuni e avviando un processo federativo in seno alla Lega araba.

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di Michele Ballerin

(MFE Emilia Romagna)

Un’analisi

Un’analisi del contesto economico europeo appare fin troppo facile e decisamente preoccupante. Abbiamo gli elementi per constatare che la crisi economica è tutt’altro che superata, e che, soprattutto, non c’è ragione di aspettarsi che i suoi effetti vadano scemando. Il dato più preoccupante è che non esistono presupposti solidi per una ripresa nel breve e medio termine, perché non ci sono prospettive di crescita per la produzione e l’occupazione. Il disagio sociale che affligge molti stati dell’Unione Europea non sembra quindi destinato a diminuire.

Non deve stupire la dichiarazione rilasciata dal presidente dell’INPS, alcuni mesi fa, sull’opportunità di mantenere uno stretto riserbo riguardo al calcolo delle pensioni future per i lavoratori italiani parasubordinati, la cui divulgazione potrebbe mettere a repentaglio la stabilità sociale. Non deve stupire, ma deve senza dubbio fare riflettere.

Un motivo particolare di allarme andrebbe visto nella distanza che è venuta creandosi con gli anni fra i cittadini e le istituzioni europee. Tale distanza – misurata con cadenza regolare dal costante decrescere della partecipazione al voto per l’elezione degli europarlamentari – minaccia oggi di approfondirsi fino a minare le fondamenta stesse del progetto europeo.

Il problema non nasce dal fatto che l’Unione Europea evita di intervenire nel campo delle politiche economiche, bensì dal fatto che sta intervenendo in una misura che in passato sarebbe stata inimmaginabile: lo fa imponendo agli stati membri economicamente più fragili politiche di austerità che essi non sono in grado di sopportare. I prossimi provvedimenti di carattere finanziario in paesi come l’Italia, la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna porteranno in dono a un ceto medio già stremato un aumento della pressione fiscale, una riduzione dei salari pubblici e tagli senza precedenti ai servizi fondamentali. Nessun analista può seriamente aspettarsi che il PIL di questi paesi si gioverà di un simile trattamento, il cui risultato più prevedibile sarà di deprimere ulteriormente i consumi, gli investimenti produttivi e le entrate fiscali.

Inoltre tali politiche, così decisive per il presente e il futuro dei cittadini europei, sono destinate a essere percepite come il frutto di meccanismi decisionali opachi e distanti, di negoziati condotti a porte chiuse al di fuori di ogni possibilità di controllo democratico, e nei quali è del resto palese, secondo una logica che nessun trattato prevede, il prevalere sistematico del punto di vista tedesco: percezione che corrisponde all’esatta natura delle circostanze.

Tutto questo sta già avvenendo e le sue conseguenze sono prevedibili: la percezione che i cittadini hanno dell’Unione evolverà in senso negativo e le istituzioni comunitarie, percepite negli ultimi tempi come sostanzialmente inutili, saranno viste come una minaccia per la prosperità e il futuro dei cittadini europei. Non è una prospettiva incoraggiante: perché quando una società matura la convinzione che determinate istituzioni non servono i suoi interessi, o addirittura li ledono, diventa insofferente, e il suo primo, comprensibile istinto è di scrollarsi di dosso un apparato di cui sente ormai solo il peso.

Ognuno può trarre le conseguenze che crede da un simile scenario. Ma i federalisti europei non dovrebbero avere dubbi: è indispensabile che questo schema – questa percezione – si rovesci e che l’Unione Europea torni ad essere per i suoi cittadini una risposta, una speranza e una promessa di futuro. Per l’esattezza: l’unica risposta, l’unica speranza e l’unica promessa di un futuro accettabile. I cittadini europei dovrebbero sentirsi coinvolti nella costruzione di una prospettiva concreta di sviluppo – un nuovo modello di sviluppo, aggiungo: perché si tratta di essere creativi. Dovrà trattarsi di uno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile, fondato sulla conoscenza. Spetta all’Europa realizzare la sintesi fra economia e cultura, dimostrando al mondo che l’una non può esistere senza l’altra.

Qualunque sia l’iniziativa che le forze democratiche e federaliste decideranno di assumere, un piano europeo per lo sviluppo, che riprenda il discorso abbandonato di Lisbona e indichi un futuro ai cittadini dell’Unione, dovrebbe esserne al tempo stesso il contenuto fondamentale e il marchio evidente. Dovrà esistere nel più breve tempo possibile una politica economica europea, con una politica industriale europea che preveda un grande piano di investimenti in infrastrutture, ricerca e formazione, orientato a quella grande (benché graduale) riconversione della produzione in senso ecologico che ormai tutti giudicano necessaria e improrogabile.

Al tempo stesso è chiaro che un simile piano può essere realizzato solo se l’assetto istituzionale dell’Unione verrà riformato in senso federale: perché occorrono risorse che l’attuale struttura del bilancio comunitario non garantisce, occorre una finanza pubblica europea, occorre rimuovere il diritto di veto in materia di politica economica e fiscale. Inutile aggiungere che i tempi sono decisamente propizi, nonostante le prevedibili resistenze, perché una politica europea di bilancio vincolante esiste già di fatto, e proprio in questi giorni si sta mettendo mano a un’armonizzazione delle politiche fiscali, mentre una riforma anche sostanziale dei Trattati appare solo una questione di tempo. Tabù decennali stanno crollando uno dopo l’altro sotto l’urto degli eventi, e sarebbe davvero imperdonabile se la politica si tirasse indietro in una simile circostanza: i costi futuri si rivelerebbero presto insostenibili.


Una proposta

Per fortuna non si richiede di partire da zero. Al contrario: esiste una maggioranza nel Parlamento Europeo favorevole a imboccare questa strada. Ce lo rivela la Risoluzione approvata il 20 ottobre scorso contenente raccomandazioni puntuali alla Commissione Europea per un rafforzamento della governance dell’Eurogruppo e dell’intera Unione. Il federalista che legga anche solo la V raccomandazione in allegato avrà già parecchi motivi di soddisfazione, perché vi troverà, fra l’altro, espliciti riferimenti alla necessità di istituire una finanza pubblica europea e un Tesoro europeo: in breve, l’ossatura di un futuro governo europeo dell’economia, da realizzarsi mediante la cessione di quote decisive di sovranità dagli stati membri all’Unione.

Esiste dunque una maggioranza nel Parlamento Europeo, e noi sappiamo che esiste anche un’avanguardia: il Gruppo Spinelli. Costituitosi negli ultimi mesi del 2010, il Gruppo annovera fra i suoi membri personalità di eccezionale rilievo, sta raccogliendo il consenso di tutti i principali gruppi parlamentari e si è già mostrato capace di esercitare un’influenza determinante sul Parlamento, come hanno messo in luce le vicende (non ancora concluse) relative all’approvazione del bilancio comunitario per il 2011.

Su impulso del Gruppo si potrebbe perciò costituire una commissione di esperti (tra i quali membri qualificati del Movimento Federalista Europeo) per l’elaborazione di un progetto organico di investimenti federali per lo sviluppo sostenibile, tale da conferire sostanza e credibilità agli obiettivi della strategia UE 2020: non quindi una raccomandazione generica, ma una risoluzione che proponga un progetto specifico e articolato, centrato sull’idea di sviluppo, però con un corollario di riforme istituzionali che gli diano implicitamente la stessa carica innovatrice che ebbe nel 1984 il Trattato Spinelli e mirino a istituire, di fatto, una Federazione europea.

Se un’azione del genere venisse impostata esisterebbe ancora un pericolo da scongiurare: il rischio che l’iniziativa federalista portata avanti dal Parlamento Europeo si ritrovasse isolata, e per questo incapace di prevalere su un’eventuale opposizione del Consiglio. Ciò che appunto si verificò nel 1984. Se tale rischio sussiste è perché manca sulla scena europea l’attore più decisivo: i partiti politici nazionali. Il loro appoggio ad un’iniziativa federalista sarebbe indispensabile. Non bisogna dimenticare che dietro un Ministro e un Commissario europei c’è sempre un partito, la cui influenza al momento giusto potrebbe essere determinante.

In questo il Movimento Federalista Europeo può avere un ruolo preciso: contattare i responsabili per le politiche europee dei diversi partiti e farli discutere intorno al tavolo di un interforum federalista, con l’obiettivo, dopo avere trovato un accordo, di redigere un documento di indirizzo politico da sottoporre agli organi dirigenti dei rispettivi partiti perché si facciano carico della questione europea e si impegnino ad appoggiare, in tutte le sedi (Parlamento, Commissione, Consiglio dell’Unione, Consiglio Europeo), l’azione federalista del Parlamento Europeo.

Infine, e per l’intera durata dell’iniziativa, sarebbe altrettanto importante che il contenuto e la finalità del progetto fossero comunicati, servendosi di tutti i canali possibili, ai cittadini e ai diversi soggetti della società civile, ponendo sempre l’accento sulle prospettive di sviluppo economico e sociale che la sua attuazione garantirebbe.

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Mozione sulla Tunisia deella direzione nazionale MFE – sabato, 22 gennaio 2011

La Direzione nazionale del Movimento Federalista Europeo,

riunita a Milano il 22 gennaio 2011,


considerato

– che la caduta del corrotto regime di Ben Ali in Tunisia è la manifestazione di un disagio che investe tutto il Maghreb e che ha le radici in motivazioni sia economico-sociali che civili e politiche e segna il fallimento del sostegno che soprattutto Washington e Parigi, ma anche Roma, hanno dato al tiranno di Tunisi;

– che la disperazione in cui vivono milioni di persone, soprattutto giovani, nei paesi della sponda Sud del Mediterraneo spinge masse crescenti a cercare nell’emigrazione condizioni più umane di vita, mentre la crisi economico-finanziaria provoca nei paesi europei reazioni di rigetto, intolleranza ed anche di vero e proprio razzismo;

– che la globalizzazione senza governo e senza regole degli ultimi vent’anni, pur avendo strappato alla povertà e alla fame intere aree del Pianeta, ha aggravato le disuguaglianze, distrutto l’ambiente, aumentato il prezzo delle materie prime e degli alimenti, favorito il fondamentalismo ed il terrorismo;

tenuto conto

– che il Partenariato euro-mediterraneo (1995) e l’Unione per il Mediterraneo (2008) non hanno realizzato l’area di libero scambio progettata per il 2010, mentre i singoli paesi europei preferiscono regolare i rapporti con i paesi delle altre due sponde del Mediterraneo a livello bilaterale;

– che l’UE non ha rispettato l’impegno a interrompere la cooperazione economica con i paesi della sponda meridionale del Mediterraneo che violano i diritti umani;

– che il conflitto israelo-palestinese, alla cui soluzione l’UE non è in grado di contribuire a causa della mancanza di un governo europeo e di una politica estera e di sicurezza europea, rappresenta il principale ostacolo alla cooperazione nell’area mediterranea;

– che l’opposizione della Francia e della Germania all’adesione della Turchia all’UE alimenta la tendenza dell’Europa a chiudersi in se stessa, abbandonando alla loro sorte i popoli che non ne fanno parte;

ricorda

– che la creazione della Federazione europea rappresenta il presupposto per promuovere la pace, la democrazia e lo sviluppo economico nel Mediterraneo e per contribuire all’evoluzione in senso federale dell’Unione africana e della Lega araba;

chiede al Parlamento europeo, alla Commissione e al Consiglio

– di avviare un piano di aiuti verso i paesi del Maghreb per combattere la disoccupazione, l’emigrazione, la corruzione ed il peggioramento delle condizioni ambientali;

– di dotare l’Unione per il Mediterraneo di istituzioni comuni e paritarie in grado di rafforzare l’Assemblea parlamentare euro-mediterranea e l’integrazione tra le due sponde del Mediterraneo;

– di rimettere in moto i negoziati per l’adesione della Turchia e di fissare una data per tale adesione;

– di aumentare il bilancio europeo con l’emissione di Union bonds e mediante una tassazione europea per dotare l’UE delle risorse proprie necessarie a completare l’allargamento e a realizzare la politica di buon vicinato;

– di attivare al più presto la cooperazione strutturata permanente in campo militare tra un gruppo di Stati dell’UE anche allo scopo di creare una forza di intervento e di interposizione capace di contribuire efficacemente alla soluzione del conflitto israelo-palestinese, che rappresenta un nodo irrisolto per promuovere una effettiva cooperazione euro-mediterranea.

http://www.mfe.it/

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di Sandro Gozi

Veltroni nel suo discorso al Lingotto ha giustamente rilanciato la nostra proposta di eleggere un “presidente dell’Europa”. In Europa abbiamo dei popoli, da “unire nella diversità”, ma non abbiamo vere elezioni “europee” né un vero “governo europeo”. Ciò non è dovuto più solo o tanto a carenze istituzionali, quanto ad una palese assenza di volontà e di coraggio politico da parte dei leader dei governi e dei partiti nazionali ed europei. Perché già oggi potremmo legare più direttamente le elezioni europee alla scelta del capo dell’esecutivo europeo, potremmo avere un “presidente dell’Europa” e potremmo avere elezioni veramente europee con partiti transnazionali. Ci provammo nel 2009, col Partito Democratico Europeo, proponendo Guy Verhofstadt o Mario Monti. Allora, ci scontrammo con lo scetticismo del Pse, che ora invece sembra aver cambiato posizione. È questa in ogni caso la battaglia che noi democratici dobbiamo fare, in vista delle prossime elezioni del 2014 e in coerenza con le ragioni del Pd: superare gli schemi della politica del Novecento in Italia, proporre un’alternativa politica e democratica in Europa.
Il trattato di Lisbona ci consente infatti di eleggere un “presidente dell’Europa” senza necessità di ulteriori modifiche costituzionali. Vediamo come. Innanzitutto, quando parliamo di “presidente dell’Europa”, pensiamo ad un presidente con poteri esecutivi. Nell’Unione europea – che non nasce in base al principio della separazione dei poteri, ma della commistione di funzioni – ciò significa andare alla ricerca delle funzioni esecutive all’interno delle diverse istituzioni. Nel caso del presidente, dobbiamo guardare al Consiglio europeo e alla Commissione europea: per avere un “presidente dell’Europa”, occorre che le funzioni di “presidente del Consiglio europeo” (oggi esercitate dal belga Herman Van Rompuy) e quelle di “presidente della Commissione europea” (Josè Manuel Durao Barroso) siano attribuite alla stessa personalità.
Possibile? Certamente.
In base al trattato di Lisbona «il presidente del Consiglio europeo non può esercitare un mandato nazionale». Viene così sancita un’esplicita incompatibilità tra questa carica europea e cariche nazionali; implicitamente, però, viene anche ammessa la possibilità di cumulare la carica di presidente del Consiglio europeo con quella di presidente della Commissione europea. Questa formula è il frutto di una battaglia “sull’aggettivo” (“nazionale”, ma non “europeo”) che sotto la presidenza di Romano Prodi conducemmo con successo nel 2003 durante i lavori della Convezione sul futuro dell’Unione, assieme ai commissari Michel Barnier e Antonio Vitorino e con Giuliano Amato, allora vicepresidente della Convenzione stessa. Se le due cariche coincidessero, si assicurerebbe veramente più coerenza, più controllo democratico e meno frammentazione nell’azione esecutiva condotta da un vero e proprio presidente dell’Unione europea.
Parallelamente, accentuando la “parlamentarizzazione” del sistema politico europeo, già da tempo in corso, dobbiamo scegliere la personalità che dovrebbe ricoprire l’incarico di presidente dell’Unione europea attraverso le elezioni europee, chiedendo a tutti gli aspiranti a tale incarico di candidarsi alle elezioni europee.
Sempre in base al trattato di Lisbona, il parlamento europeo deve “eleggere” il presidente della Commissione: i vari partiti politici europei, quindi, potrebbero indicare il loro candidato, con l’accordo (di gruppi politici e governi) di eleggere presidente della Commissione il candidato del partito, o dell’alleanza di partiti, che risulti vincitore delle elezioni europee del 2014. Sarebbe infatti molto difficile per i capi di stato e di governo europei, riuniti nel Consiglio europeo (che devono «tenere conto» delle elezioni europee nel designare il presidente della Commissione) indicare come presidente della Commissione e sottoporre al voto parlamentare una personalità diversa da quella legittimata con voto popolare (che dovrebbero poi nominare anche presidente del Consiglio europeo per farne un vero “presidente dell’Unione europea”).
Rimane però aperta la questione della reale legittimità democratica di questo presidente, che non può basarsi su soluzioni istituzionali ma che richiede uno spazio politico europeo più forte e veri partiti politici europei, anziché le deboli confederazioni di partiti nazionali che oggi abbiamo in Europa. Ecco perché tale scelta dovrebbe venire accompagnata dalla modifica del sistema elettorale per il parlamento europeo. Modifica che dovrebbe portare ad un sistema elettorale veramente uniforme in tutti gli stati e ad una quota crescente di eletti non in liste di partiti nazionali ma in liste europee transnazionali, totalmente svincolate dalla nazionalità e dal territorio e basate unicamente sulla condivisione di una visione e proposta politica per l’Europa e un candidato alla sua Presidenza.
Andrew Duff, europarlamentare liberale, sta lavorando per una prima riforma in tal senso, con l’aggiunta agli eletti nelle liste nazionali di un esiguo numero di eletti in liste transnazionali. Non solo tale proposta va sostenuta con forza, ma occorre anche pensare ad un sistema che permetta, progressivamente, di aumentare le quote degli eletti nelle liste transnazionali e diminuire quelli nelle liste nazionali.
Una doppia riforma di questo genere, presidente dell’Unione europea eletto in liste transnazionali, permetterebbe veramente di rompere i 27 muri politici, mediatici, culturali nazionali che fanno delle elezioni europee delle elezioni di serie B, una sorta di test sulla (im)popolarità dei vari governi in carica. E soprattutto, tale riforma renderebbe evidenti a tutti le insufficienze e le debolezze degli attuali “partiti politici europei”, la necessità di superare le loro divisioni novecentesche e di costruire nuove forze e alleanze attorno al progetto per l’Europa e alla personalità che dovrebbe eseguire quel progetto come “presidente dell’Europa”. Un volto noto a tutti gli europei, un’idea scelta dagli europei, un’azione di cui rendere conto ai parlamenti e ai cittadini europei, in un’Europa più democratica.

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