DEMOCRAZIA E GOVERNANCE EUROPEA

 

Il sistema di governance dell’Unione europea, quale creato dai suoi Trattati istitutivi e modificato dai Trattati successivi, non è mai stato coerente con i principi di legittimità democratica propri degli Stati nazionali.  Basti ricordare che il principio fondamentale della separazione dei poteri, secondo cui nessun organismo può esercitare al tempo stesso i tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, é contraddetto nell’Unione europea da un’Istituzione quale la Commissione europea. Quest’ultima partecipa al processo legislativo con il suo diritto quasi esclusivo di iniziativa legislativa, partecipa al potere esecutivo con le sue circa 2.500 decisioni “esecutive” annuali e partecipa anche al potere giudiziario quando prende decisioni e commina sanzioni in materia di concorrenza e di aiuti di Stato che non siano contraddette dalla Corte europea di Giustizia. Nel numero 47 dei “Federalist Papers”, Madison condivide l’affermazione di Montesquieu  secondo cui “l’organo legislativo non deve mai esercitare il potere esecutivo e quello giudiziario o entrambi” ; lo stesso vale per l’organo esecutivo e per quello giudiziario.  La principale conseguenza del diritto esclusivo d’iniziativa legislativa attribuito alla Commissione europea è l’assenza di tale diritto in capo al Parlamento europeo che – contrariamente ad ogni Parlamento nazionale – può solo chiedere alla Commissione europea la presentazione di una proposta di legge.  Naturalmente, questa particolarità della governance europea ha avuto una duplice giustificazione : da un lato, la Commissione europea deve esaminare le legislazioni nazionali e tener conto degli interessi degli Stati membri prima di proporre un progetto di legge europea; dall’altro, un progetto di legge europea presentato da una maggioranza di parlamentari europei potrebbe difficilmente prendere in considerazione gli interessi degli Stati meno popolati.

Questa “anomalia” della governance europea è aggravata dal fatto che il Consiglio europeo dei Ministri esercita sia funzioni legislative che esecutive previste dai Trattati (per esempio in materia di politica estera) e può anche auto-delegarsi nuove funzioni esecutive (almeno nei settori di competenza dell’Unione europea dove può adottare un atto legislativo senza l’accordo del PE).

Per questi motivi, Giuliano Amato disse nel suo intervento iniziale alla Convenzione europea nel 2002 che “Montesquieu non aveva mai visitato Bruxelles” (anche se il Trattato uscito dai lavori della Convenzione non ha ristabilito il principio della separazione dei poteri, ma ha solo corretto alcune anomalie secondarie, quali il potere della Commissione europea di modificare il contenuto di leggi europee senza l’accordo del potere legislativo).

Per queste ed altre ragioni, molti analisti del progetto di integrazione europea hanno ritenuto che l’Unione europea soffra di un “deficit democratico” o comunque non rispetti i principi del costituzionalismo sviluppati dalla tradizione illuministica europea (quali i principi del governo limitato, della dichiarazione dei diritti, delle “checks and balances” e della separazione dei poteri). Pertanto, sostiene Stefano Bartolini nel suo saggio “Taking Constitutionalism and Legitimacy seriously” (1), i termini di “Costituzione” e di “legittimità” democratica non dovrebbero essere utilizzati abusivamente allorché i principi del costituzionalismo moderno sono molto deboli o addirittura assenti nei Trattati europei.  Un altro analista della “democrazia europea” quale Philippe C.Schmitter ritiene che nella sua attuale configurazione istituzionale il sistema di governo dell’Europa non è una democrazia e non lo diventerà finché i suoi membri non decideranno di darsi nuove regole e diritti (nel suo saggio “Come democratizzare l’Unione europea” (2) viene citata la battuta secondo cui l’Unione europea non potrebbe aderire a sé stessa poiché non rispetterebbe i criteri di democraticità richiesti ai paesi candidati).  Secondo l’analisi di Fritz Scharpf, non c’é alcun dubbio che l’Unione è ben lontana dall’essere pervenuta ad un’identità collettiva “forte” che sembra evidente nelle democrazie nazionali. In mancanza di tale identità, le riforme istituzionali non potranno accrescere sensibilmente la legittimità, in termini di inputs, delle decisioni prese in applicazione del principio maggioritario (3).

La letteratura sul “deficit democratico” dell’Unione é molto vasta e non può essere riassunta in questa sede.  Basterà ricordare che secondo un altro analista della costruzione europea, il Prof. Joseph Weiler, l’Unione europea sarà democratica solo quando i cittadini europei potranno “mandare a casa” i loro governanti dopo un’elezione europea (il Prof. Weiler non precisa tuttavia se debbano essere “mandati a casa” i membri della Commissione europea, il suo Presidente oppure il Presidente del Consiglio europeo).

Un altro analista della governance europea, il Prof. Sergio Fabbrini, definisce l’Unione europea una “democrazia composita” riferendosi all’esperienza costituzionale degli Stati Uniti (“compound democracy” secondo l’espressione di Madison). Sergio Fabbrini distingue la democrazia europea dai modelli democratici consolidatisi negli Stati membri e individua la sua caratteristica peculiare in un “processo decisionale non monopolizzabile da parte di una singola Istituzione”. In un senso analogo, altri analisti della governance europea quali Moravcsik e Renaud Dehousse riassumono il problema nella domanda seguente : una nuova democrazia sovranazionale europea deve fondarsi necessariamente sugli stessi principi costituzionali che hanno ispirato le democrazie parlamentari nazionali ?  Nella sua sentenza del 30 Giugno 2009, la Corte costituzionale tedesca – la più scrupolosa nella difesa dei principi democratici – ha cercato senza successo di dare una risposta univoca a questa domanda : da un lato ha riconosciuto  (si veda il paragrafo 227 della sentenza) che la democrazia sovranazionale europea non può fondarsi necessariamente sugli stessi principi della democrazia nazionale, dall’altro contraddice questa affermazione quando ritiene che il Parlamento europeo non rispetti nella sua composizione il principio “one man, one vote” proprio degli Stati nazionali (vedere i par. 285-286 della sentenza).

Va certamente riconosciuto che il Trattato di Lisbona ha introdotto una serie di miglioramenti nel funzionamento della governance europea.  Basti pensare all’aumento dei poteri legislativi e di bilancio del Parlamento europeo, al legame introdotto tra la scelta del Presidente della Commissione europea e i risultati delle elezioni europee, al rafforzamento sia pure limitato del ruolo dei Parlamenti nazionali, alla soppressione dell’anomalia che permetteva alla Commissione europea di modificare il contenuto di una legge europea senza l’accordo del legislatore europeo. Due  progressi ulteriori sul piano democratico introdotti dal trattato di Lisbona sono stati il riconoscimento della democrazia partecipativa con il diritto di iniziativa legislativa, sia pure indiretto, da parte di un milione di cittadini europei nonché il carattere vincolante per i tribunali della Carta dei diritti fondamentali che pone dei limiti all’azione legislativa europea. Tuttavia, tali elementi di maggiore “democraticità” dell’Unione europea non hanno eliminato le anomalie principali della governance europea presenti nei Trattati e nella pratica istituzionale :

1)      la Commissione europea continua a godere del diritto quasi-esclusivo d’iniziativa legislativa (esteso nel frattempo alla cooperazione giudiziaria e di polizia, mentre gli Stati membri hanno perso parallelamente il loro diritto d’iniziativa individuale preesistente) con il solo obbligo complementare di fornire una motivazione nei casi in cui rifiuti di dare seguito alle richieste di proposte legislative emananti dal Parlamento europeo o dal Consiglio europeo dei Ministri. (Beninteso, questa affermazione si riferisce al diritto formale d’iniziativa di cui dispone la Commissione e non tiene conto del fatto che tale diritto é stato sostanzialmente eroso nei fatti dal ruolo crescente assunto dal Consiglio europeo e dalla pratica della Commissione di dare un seguito positivo al 95% delle richieste legislative ricevute dagli Stati membri, dalle altre Istituzioni e dai gruppi di pressione).

2)      Il Parlamento europeo, malgrado l’aumento dei suoi poteri sancito dal Trattato di Lisbona e rafforzato nella pratica attraverso gli accordi istituzionali conclusi con la Commissione europea, non è riuscito ancora a imporsi come un’Istituzione realmente rappresentativa dei cittadini europei. Questo non é dovuto tanto alla scarsa partecipazione elettorale alle elezioni europee (chi contesterebbe la rappresentatività della Camera dei Comuni o del Parlamento olandese solo in base ad una partecipazione elettorale inferiore al 50% ?) quanto alla procedura elettorale europea, all’assenza di veri e propri partiti politici europei nonché all’impossibilità per il cittadino europeo di influenzare direttamente la nomina di un governo europeo e la scelta di un programma di legislatura.  Le elezioni europee sono in realtà elezioni nazionali basate su liste di candidati nazionali e non transnazionali, scelti da gruppi politici che non presentano veri e propri programmi alternativi ma solo manifesti alquanto vaghi e fortemente simili tra di loro (almeno per i tre principali gruppi politici) e che non sono ancora riusciti a proporre dei propri candidati alla carica di Presidente della Commissione europea (malgrado il Trattato di Lisbona avesse già autorizzato in pratica tale scelta).  Questa situazione è dovuta al fatto che il Parlamento europeo è obbligato ad inserirsi in un processo continuo di negoziati e di compromessi, in una sorta di “grande coalizione”che impedisce ai candidati alle elezioni europee di fare delle promesse elettorali precise come lo fanno i partiti politici nelle elezioni nazionali.  Questo vale anche per il lavoro legislativo in seno al Parlamento europeo poiché quest’ultimo può esercitare un’influenza decisiva nei riguardi del Consiglio dei Ministri solo quando riunisce una maggioranza assoluta su un testo specifico di un progetto di legge europea (si veda per esempio l’accordo tra popolari e socialisti sulla direttiva detta Bolkestein o sul regolamento REACH relativo ai prodotti chimici).  Detto altrimenti, la cultura politica del Parlamento europeo è largamente consensuale, il che rende molto difficile al cittadino europeo scegliere il partito da votare alle elezioni europee sapendo che la sua scelta non avrà una grande influenza né sulla nomina del Presidente della Commissione europea né sul contenuto delle leggi europee.  Inoltre, il carattere vago e non chiaramente alternativo dei manifesti pubblicati dai partiti politici europei al momento delle elezioni europee si spiega, da un lato, con il largo spettro di opinioni politiche che esistono all’interno dei gruppi politici e, dall’altro, con l’impossibilità dei candidati ad impegnarsi a realizzare, una volta eletti, un programma politico o legislativo specifico. A questi elementi si aggiunge l’inesistenza di un rapporto diretto tra la scelta elettorale del cittadino europeo e l’investitura di un governo europeo che ottenesse la fiducia da parte di una maggioranza politica in seno al Parlamento europeo.  Questa situazione di fatto potrebbe essere modificata da una decisione dei principali gruppi politici al PE di presentare un loro candidato alternativo alla Presidenza della Commissione europea.  Anche se tale decisione non risolverebbe il problema dell’assenza di un vero e proprio governo europeo responsabile di un programma di legislatura di fronte al Parlamento, essa permetterebbe tuttavia di introdurre un legame politico diretto tra il voto del cittadino europeo e la scelta del Presidente della Commissione europea. Secondo alcuni analisti della governance europea, tale procedura permetterebbe di rafforzare la legittimità democratica dell’Unione europea e di costituire un elemento fondatore per la formazione di un “demos” europeo (4).

3)      Il terzo elemento anomalo della governance europea é costituito dal ruolo sempre più importante esercitato dal Consiglio europeo.  Mentre inizialmente le riunioni semestrali o trimestrali dei Capi di Stato o di governo si limitavano a dare impulsi alle altre Istituzioni dell’Unione o a decidere alcuni orientamenti politici generali, adesso il Consiglio europeo si è attribuito il ruolo di gestore permanente dell’Unione economica e monetaria (basti ricordare che dall’inizio della crisi economica e dei debiti sovrani, il Consiglio europeo ha tenuto ben 28 riunioni formali o informali con una frequenza quasi mensile).  Prima di analizzare l’evoluzione recente del ruolo del Consiglio europeo, va ricordato che già l’intensa attività legislativa del Consiglio dei Ministri, composto dagli esecutivi degli Stati membri, è stata criticata in quanto foriera di una “perversione” della democrazia (l’espressione è di Joseph Weiler ma è stata ripresa da altri analisti) intesa sia come supremazia dell’esecutivo sul legislativo nella produzione normativa che come possibilità per gli esecutivi nazionali di prendere decisioni poco trasparenti sfuggendo così al controllo degli elettorati nazionali (5).  Altri commentatori hanno osservato che “i poteri perduti in sede nazionali dalle istituzioni rappresentative vengono poi acquisiti in sede comunitaria da istituzioni non rappresentative o da…efficienti tecnostrutture”.  E, anticipando quanto diremo sull’evoluzione del Consiglio europeo, “se il centro politico del sistema europeo si individua nell’organo intergovernativo,….l’integrazione europea rischia di passare attraverso scelte intergovernative che, per il solo fatto di essere compiute in sede comunitaria, sono prive dei controlli politici e costituzionali cui sono sottoposte nell’ordinamento nazionale” (6).

Questa analisi si attaglia pienamente alle recenti decisioni del Consiglio europeo in materia di governance economica della zona euro.  L’insufficienza se non l’assenza di competenze dell’Unione nel campo delle politiche economiche dei singoli Stati (soggette ad un coordinamento europeo giuridicamente poco vincolante : si ricordi la violazione del Patto di stabilità nel 2003 da parte del tandem franco-tedesco rimasto non sanzionato), coniugate con la necessità di mettere in opera meccanismi di assistenza finanziaria agli Stati in difficoltà ha prodotto quella che un analista ha definito “il più pesante intervento (dell’Unione europea) nelle responsabilità nazionali dotato della minore legittimità” (7).  La decisione del Consiglio europeo in data 8 Giugno 2010 che impone alla Grecia di ridurre le pensioni, i giorni festivi e le allocazioni sociali, il numero degli impiegati pubblici nonché l’adozione di nuove leggi in materia salariale (allorché il Trattato non riconosce alcuna competenza all’Unione in materia di armonizzazione dei salari) è intervenuta come altre in questioni di politica economica e sociale di competenza dei Parlamenti nazionali.  Queste decisioni hanno avuto per conseguenza che i capi di governo di alcuni paesi membri hanno dovuto, sotto la minaccia di sanzioni, ricercare ex-post delle maggioranze nei loro Parlamenti nazionali per mettere in opera ciò che avevano concordato con i loro colleghi a Bruxelles.  Questa specie di “federalismo esecutivo” – nota Jurgen Habermas – di un Consiglio europeo auto investitosi di autorità sarebbe il modello di un esercizio post-democratico del potere (8).

Una critica analoga può essere mossa nei riguardi della famosa lettera della Banca Centrale europea del 5 Agosto 2011 in cui la BCE chiede al governo italiano di adottare specifiche e incisive riforme economiche, quali la riforma del sistema pensionistico e quella del mercato del lavoro. Tali richieste da parte della BCE vanno certamente al di là dei compiti fissati dai Trattati, che riguardano essenzialmente “la gestione della politica monetaria dell’Unione” (art. 282 del TFUE).  E’ difficile contestare che la decisione del Consiglio nei riguardi della Grecia come la lettera della BCE al governo italiano creino dei “precedenti” per la governance economica dell’Unione poiché implicano una competenza di quest’ultima ad imporre precisi obblighi di politica economica in materie di competenza esclusiva degli Stati membri (nello stesso senso, si veda l’intervento di Roland Bieber del 30/09/2011 all’IUE sulle “lacune di legittimità nella gestione della crisi finanziaria dell’Unione europea (9).  Da un punto di vista di democrazia sostanziale, va anche notato che le decisioni o raccomandazioni del Consiglio in materia di politica economica non implicano nessun intervento degli organi parlamentari (né del Parlamento europeo, né dei Parlamenti nazionali) che sono soltanto informati ex-post del contenuto delle misure (tale lacuna è tuttavia imputabile alle disposizioni del Trattato di Lisbona).

Non possiamo non concordare con chi ritiene che tali interventi dei capi di Stato, del Consiglio o della BCE in materie di prevalente responsabilità nazionale provocano legittimi dubbi e preoccupazioni nell’opinione pubblica e nelle forze politiche nazionali nei riguardi dell’Unione europea.   Jurgen Habermas parla esplicitamente di “accordi presi senza alcuna trasparenza e privi di forma giuridica” che ”dovrebbero essere imposti agli esautorati parlamenti nazionali con l’ausilio di minacce di sanzioni e di pressioni varie” (10).   Andrea Manzella si chiede come le democrazie nazionali riescano a conservarsi tali di fronte alle decisioni dei nuovi modi di governance europea (11).  Alcuni analisti hanno messo in dubbio il rispetto di un principio democratico fondamentale – all’origine del ruolo dei Parlamenti nazionali – quale “no taxation without representation” a proposito sia delle misure di sostegno finanziario quali il Fondo salva-Stati (ESM), sia delle misure di austerità imposte agli Stati beneficiari degli aiuti europei.  Va notato che tale critica è avanzata sia dall’ex-membro tedesco della BCE (Otmar Issing) a proposito dei contribuenti tedeschi che dovrebbero finanziare le misure di aiuto finanziario ai paesi in difficoltà che da parte di chi ritiene che siano i cittadini dei paesi meno virtuosi a dover pagare le misure di austerità (soppressione di impieghi pubblici, riduzione dei salari e delle pensioni, ecc..) senza poter partecipare alle decisioni del Consiglio europeo o della BCE.  Un politico italiano ha riassunto questo esautoramento della democrazia nazionale nella frase : “se le decisioni di politica economica e sociale vengono prese a Berlino o a Francoforte, allora voglio votare in Germania”.  Andrea Manzella aggiuge che il problema tocca oggi la sostenibilità, da parte dei sistemi democratici, di procedure di aggiustamento dei conti pubblici che danneggiano irrimediabilmente le condizioni esistenziali della cittadinanza (12).  E’ un paradosso che la Corte costituzionale tedesca sia chiamata a pronunziarsi il 12 Settembre sulla costituzionalità, rispetto alla Legge Fondamentale tedesca, del Fondo salva-Stati quando la stessa Corte ha affermato nella già ricordata sentenza del 30 Giugno 2009 che una modifica dei Trattati europei non potrebbe mettere in causa gli elementi fondamentali dello “Stato sociale” tedesco (mentre le decisioni del Consiglio europeo o della BCE rischiano di mettere in causa elementi dello Stato sociale considerati altrettanto importanti per altri Stati membri).

I limiti del presente intervento non consentono di approfondire altri aspetti dell’anomalia democratica dell’attuale governance economica europea.  Va tuttavia ricordato che, se è vero che i nuovi Trattati relativi alla disciplina finanziaria (Fiscal Compact) e al Fondo salva-Stati (ESM) sono ratificati dai Parlamenti nazionali, il legame di condizionalità esistente tra i due testi (solo gli Stati che avranno ratificato il Fiscal Compact potranno usufruire del Fondo salva-Stati) presenta un condizionamento non dissimile da quello che esisteva per i lavoratori della FIAT al momento del referendum sul nuovo contratto di lavoro : essi potevano benissimo votare contro la conclusione del contratto ma correvano il rischio che la FIAT decidesse di rinunciare ai suoi investimenti in Italia. I parlamenti dei paesi in difficoltà come anche gli elettori irlandesi hanno subito un condizionamento analogo.  Infine, va ricordato come il Primo Ministro Papandreu abbia dovuto rinunciare alla tenuta di un referendum sulle condizioni imposte alla Grecia per beneficiare degli aiuti europei.

Questa analisi, anche se incompleta, ci porta a interrogarci sulle soluzioni possibili per rimediare all’anomalia dell’attuale governance europea.  Quest’ultima, anche se migliorata dal Trattato di Lisbona, rimane scarsamente comprensibile per i cittadini europei e presenta elementi difficilmente compatibili con i principi democratici.  Se i governi nazionali continuassero a prendere decisioni che rischiano di mettere in causa alcuni elementi importanti dello Stato sociale senza la partecipazione democratica dei cittadini e dei loro rappresentanti, questo potrebbe provocare una reazione di rigetto (già apparsa in alcuni Stati europei) contro lo stesso progetto europeo.

Le soluzioni possibili non sono molto numerose ; per brevità, ricorderemo le due principali che presentano alcune varianti :

1) la creazione progressiva di un’Unione politica europea composta dagli Stati che dispongono della moneta unica o che vi aderiranno nei prossimi anni.

Un numero sempre crescente di leaders politici,  di economisti e di analisti dell’integrazione europea ritengono che l’Unione economica e monetaria non potrà sopravvivere a lungo se non si porranno rapidamente le basi per realizzare progressivamente una vera Unione politica europea (almeno tra gli Stati partecipanti alla zona Euro).  Tale percezione sembra essere condivisa con maggiore o minore entusiasmo anche dagli attuali capi di Stato che hanno incaricato a fine Giugno un quartetto di Presidenti (Van Rompuy, Barroso, Draghi e Juncker) di presentare a Ottobre un rapporto preliminare e a Dicembre un rapporto definitivo sulle misure da prendere per rafforzare l’UEM e realizzare un’Unione bancaria, un’Unione di bilancio e, in finis, un’Unione politica europea.  Mentre un’Unione bancaria e, al limite, un’Unione di bilancio potrebbero essere create senza modificare gli attuali Trattati, un’Unione politica necessiterà certamente la conclusione di un nuovo Trattato che modifichi il Trattato di Lisbona.  L’esperienza dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona potrebbe far pensare che occorrano molti anni per concludere un nuovo Trattato, allorché l’esperienza dei Trattati di Roma e dell’ Atto unico aveva dimostrato che è possibile concludere nuovi Trattati in un lasso di tempo limitato (è vero tuttavia che il numero di Stati era più limitato e che tutte le ratifiche erano intervenute per via parlamentare e non referendaria).  Tuttavia il problema principale è legato al metodo di elaborazione di un nuovo Trattato/Costituzione che istituisca una vera e propria Unione politica europea (di natura federale per una corrente d’opinione che va al di là dei soli movimenti federalisti). La scelta del metodo tradizionale intergovernativo (Conferenza intergovernativa preceduta da una Convenzione e seguita da 28 ratifiche nazionali per via parlamentare o referendaria) non solo occuperebbe i prossimi tre o quattro anni, ma si arenerebbe di fronte alle mancate ratifiche di alcuni Stati (a cominciare dal Regno Unito).  Peraltro, i suoi risultati non sarebbero probabilmente coerenti con i principi di legittimità democratica già ricordati e attualmente mancanti.  Per queste ragioni, una corrente di opinione sempre più vasta chiede che l’Unione politica europea sia varata da un’Assemblea costituente eletta ad hoc dai cittadini europei secondo criteri di rappresentanza proporzionale (si veda ad esempio il recente articolo di Bersani sull’Unità).  Una maggioranza di federalisti e di leaders politici ritengono che spetti al Parlamento europeo, in quanto unica espressione democratica dei cittadini europei, di elaborare un progetto di nuovo Trattato da sottoporre successivamente ad un referendum “consultivo” dei cittadini europei sulla base del criterio della doppia maggioranza, semplice o qualificata, degli stessi cittadini e degli Stati partecipanti. Il carattere consultivo di tale referendum europeo sarebbe reso necessario dal fatto che in alcuni Stati europei (Germania, Italia e Belgio in particolare) un referendum vincolante sul testo di un Trattato è vietato dalla Costituzione.  Naturalmente il risultato di tale referendum, anche se consultivo, sarebbe difficilmente contraddetto dai Parlamenti nazionali chiamati a ratificare il nuovo Trattato istitutivo dell’Unione politica europea.  Tuttavia, ci sembra politicamente difficile affidare al presente Parlamento europeo, eletto nelle condizioni precedentemente ricordate e ormai prossimo alla fine legislatura, tale compito di natura costituente. Si potrebbe invece affidare un mandato costituente al nuovo Parlamento europeo che sarà eletto nel Giugno 2014 e fare di tale mandato il tema centrale – per una volta realmente europeo – della campagna elettorale.

Questo scenario è tuttavia ben lontano dall’essere acquisito : se escludiamo l’ipotesi che l’attuale Parlamento europeo si investa autonomamente di un mandato costituente e/o elabori spontaneamente un progetto di nuovo Trattato, ci sembra difficile che i capi di Stato o di governo decidano al Consiglio europeo di Dicembre di compiere immediatamente il salto verso un’Unione europea di tipo federale.  Se il Presidente Napolitano ha appena affermato che l’Unione politica europea non è più un tabù, le dichiarazioni di altri leader politici o personalità europei (a partire da Mario Draghi fino ai presidenti del Consiglio europeo e del Parlamento europeo) secondo cui “non sono necessari gli Stati Uniti d’Europa” per difendere l’Euro e rafforzare l’Unione economica e monetaria oppure “non è il momento della scelta federale”, lasciano pensare che le decisioni del Consiglio europeo di Dicembre saranno improntate (salvo nuova crisi della moneta unica) alla politica dei piccoli passi.   In tale caso, non ci sarebbe una nuova legittimazione democratica della governance europea tramite la creazione a scadenza ravvicinata di un’entità federale europea.

2)  Introduzione di nuovi meccanismi di legittimità democratica senza modifica dei Trattati.

In un suo recente articolo, Alberto Majocchi ricorda che la creazione di un Tesoro europeo, come del resto quella di un’Unione fiscale, deve essere soggetta al controllo democratico del Parlamento e agire nel quadro di un governo che sia rappresentativo della volontà popolare, conformemente al principio “No taxation without representation” (13). Quindi, la decisione di procedere alla creazione di un’Unione fiscale, con un Tesoro e una finanza federale, dovrebbe essere accompagnata da una contestuale decisione che fissi la data per l’avvio di una Federazione europea.  Se tale decisione non fosse presa, occorrerebbe comunque introdurre nuovi meccanismi di legittimazione democratica nella governance europea poiché l’Unione, come scrive Sergio Fabbrini sul “Sole 24 Ore”, sta diventando un mostro istituzionale privo della necessaria legittimazione. “Non possono essere i leader eletti in alcuni Stati membri a prendere decisioni che avranno un impatto sulla vita dei cittadini di tutti gli altri Stati” (14).  A conclusioni analoghe arrivano sia Barbara Spinelli nel suo recente articolo “Minimalisti d’Europa” (La Repubblica del 5 Settembre) che Andrea Manzella nel suo articolo “Una democrazia porosa salverà l’Europa (La Repubblica del 18 Maggio 2012). Questa analisi, ormai condivisa da numerosi commentatori, ha trovato un altro autorevole supporto nel Presidente Napolitano nel suo recentissimo discorso a Venezia : “La necessità di delegare funzioni sempre più significative… alle Istituzioni dell’Unione si è fatta cogente e ineludibile : il vero problema è quello della democraticità del processo di formazione delle decisioni dell’Unione”.

Lo stesso Andrea Manzella identifica, in un altro recente articolo (15), tre misure da adottare senza modifica dei Trattati al fine di rafforzare la legittimazione democratica della governance europea :

a) l’adozione di una procedura elettorale uniforme per le elezioni del PE che consenta lo scambio di candidature e la presentazione di capolista unici tra Paese e Paese da parte dei grandi partiti europei. A questa proposta – ricordata anche dal Presidente Napolitano nel suo discorso appena citato – si potrebbe aggiungere quella già ricordata secondo cui i principali partiti politici europei dovrebbero presentare loro candidati alla carica di Presidente della Commissione europea in modo da creare una “posta in palio” per la scelta dei cittadini europei.  Tuttavia queste misure, indubbiamente utili per “europeanizzare” le elezioni del PE e rafforzarne la legittimità democratica, non risolvono il problema della creazione di un governo europeo responsabile di fronte ai rappresentanti dei cittadini europei.

b)  i governi, con una dichiarazione comune pre-elettorale, potrebbero impegnarsi a nominare anche come Presidente del Consiglio europeo, il Presidente della Commissione europea eletto dalla maggioranza del Parlamento europeo.  Questa “unione personale” dei due Presidenti, compatibile con i Trattati e già evocata in seno alla Convenzione europea nel 2003, avrebbe il merito di rafforzare il ramo europeo dell’Esecutivo nei confronti dello stesso Consiglio europeo.  Tuttavia, anche questa misura potrebbe avere effetti limitati sul piano della legittimità democratica se i 27/28 capi di Stato e di governo considerassero il nuovo Presidente dell’Unione come un semplice mandatario incaricato di elaborare i rapporti e di eseguire i mandati decisi nelle loro riunioni quasi mensili (del resto, già oggi Van Rompuy e Barroso elaborano insieme i rapporti sulla governance economica e sul rafforzamento dell’UEM affidati loro dai capi di Stato).

c)  I Parlamenti nazionali ed il Parlamento europeo potrebbero dichiarare di voler lavorare insieme mediante “conferenze” o “convenzioni” euronazionali sulle grandi questioni dell’Unione europea in modo da rivalutare il loro ruolo nei riguardi degli elettori e da rafforzare il controllo democratico sulle decisioni europee.  Questa misura sarebbe conforme al disposto del regolamento 1176/2011 dell’UE secondo cui il rafforzamento della governance economica dovrebbe includere una più stretta e tempestiva implicazione del PE e dei Parlamenti nazionali. Anche l’art.13 del Fiscal Compact prevede l’organizzazione di conferenze congiunte di rappresentanti del PE e dei Parlamenti nazionali al fine di discutere le politiche di bilancio. Tuttavia, anche questa misura avrebbe effetti limitati a meno che il Consiglio europeo non accettasse di sottoporre i suoi orientamenti, prima che questi ultimi diventino operativi, al vaglio ostativo di una riunione interparlamentare congiunta (secondo il modello del “Congresso europeo” proposto nel 2002 dal Presidente della Convenzione europea ma non accettato da quest’ultima). Se però tale riunione avesse un potere di “veto” nei riguardi delle decisioni del Consiglio europeo, questa procedura esigerebbe una modifica dei Trattati. Se invece i capi di governo potessero mettere in atto le loro decisioni malgrado il parere contrario della riunione interparlamentare, questa procedura non risolverebbe il nodo della legittimità democratica.

Questa breve analisi dei rapporti tra governance europea e democrazia porta alla conclusione che non sembra possibile riconciliare il funzionamento istituzionale dell’Unione con i principi della democrazia rappresentativa se non attraverso una modifica degli attuali Trattati e la costituzione di un’entità federale europea (non necessariamente sul modello presidenziale degli Stati Uniti).  A questo riguardo, non va dimenticato il monito lanciato nel 1948 da Luigi Einaudi e ricordato da Barbara Spinelli nell’articolo già citato : “Oggi che tanti uomini volenterosi si adoperano a promuovere la fondazione degli Stati Uniti d’Europa, uopo è ripeter il monito di trent’anni fa. Non facciamo opera vana e dannosa contentandoci di una semplice unione di Stati sovrani ! Meglio sarebbe non farne nulla, poiché l’unione di Stati sovrani cadrebbe presto nell’impotenza….”

PAOLO  PONZANO  (Senior Fellow all’Istituto Universitario Europeo).

Tags: